6 Maggio 2025
Spagna, olivicoltura e fondi di investimento – Economia e politica


Il tessuto produttivo olivicolo italiano è fatto di piccole aziende agricole a conduzione familiare che gestiscono oliveti con bassa densità e con una conseguente limitata produzione di olio di oliva. Sebbene ci siano tante aziende professionali, molte altre sono gestite in maniera quasi hobbistica, con investimenti limitati e produzioni scarse.

 

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Nella vicina Spagna la situazione è differente ed è cambiata moltissimo negli ultimi anni. Dal 1999 al 2020, il numero di aziende olivicole è sceso del 60%, ma, al contempo, la produzione di olio è cresciuta del 65%. Il motivo? Un processo di accorpamento delle aziende più piccole e di cambio di tipologia di produzione, passata da impianti con densità basse al modello superintensivo.

 

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Grafico: In blu il numero di aziende olivicole spagnole, in arancio la produzione di olive

In blu il numero di aziende olivicole spagnole, in arancio la produzione di olive

(Fonte foto: Coag)

 

Una delle cause di questo fenomeno è la presenza di numerosi fondi di investimento che operano nel Paese e che hanno investito nell’oro verde. Secondo il report “La uberizzazione del settore olivicolo spagnolo”, pubblicato dall’associazione di categoria Coag dell’Andalusia, sono novecento i fondi attivi, con un investimento intorno ai 100 miliardi di euro.

 

Il ruolo dei fondi nel nuovo scenario produttivo

Questi fondi, spesso internazionali, non si limitano a investimenti passivi. Al contrario, acquisiscono direttamente aziende agricole, le ristrutturano e introducono modelli produttivi intensivi, con l’obiettivo di massimizzare il ritorno economico. L’olio di oliva, in particolare l’extravergine, è infatti un prodotto sempre più richiesto a livello mondiale e le prospettive di crescita sui mercati esteri sono estremamente promettenti.

 

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L’ingresso del capitale finanziario ha portato a una profonda trasformazione dell’olivicoltura spagnola: si è passati da un’agricoltura frammentata e tradizionale a grandi proprietà gestite come imprese industriali. Un modello che ha completamente cambiato le regole del gioco, imponendo una logica improntata sull’efficienza, la standardizzazione e l’economia di scala.

 

Più ettari, più olio, ma anche più acqua

Il modello produttivo adottato dai fondi si basa sull’oliveto superintensivo: impianti con oltre 2mila piante per ettaro, disposti in filari meccanizzabili, con raccolta automatizzata e irrigazione costante. Una vera e propria rivoluzione rispetto all’olivicoltura tradizionale, che ha portato a un notevole aumento della produttività, con punte di 12-15 tonnellate di olive ad ettaro.

 

Questa intensificazione ha favorito un’espansione delle superfici coltivate. Secondo i dati del Ministerio de Agricultura, Pesca y Alimentación (Mapa), tra il 2018 e il 2022 le superfici irrigue a olivo sono aumentate del 6,3%, rispetto al +4,4% degli oliveti in asciutto. Un trend che evidenzia quanto l’accesso all’acqua sia ormai un fattore discriminante per la redditività aziendale.

 

Tuttavia, l’aumento dei consumi idrici pone una questione urgente di sostenibilità, soprattutto in un Paese come la Spagna che affronta periodi di siccità sempre più prolungati e intensi a causa del cambiamento climatico.

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Grafico: In arancione le superfici olivicole in asciutta, in blu quelle irrigate

In arancione le superfici olivicole in asciutta, in blu quelle irrigate

(Fonte foto: Coag)

 

I costi sociali della “uberizzazione”

A fronte di una maggiore produttività, il modello imposto dai fondi presenta una serie di ricadute sociali e occupazionali critiche. In primo luogo, si assiste a un processo di esternalizzazione dei servizi agricoli: dalla potatura alla raccolta, fino alla gestione dell’irrigazione, tutto viene affidato a ditte terze, spesso con personale precario, sottopagato e privo di tutele.

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In secondo luogo, la concentrazione del potere contrattuale nelle mani di poche grandi imprese riduce il margine di manovra per i piccoli produttori, che faticano a restare competitivi. Questo processo sta portando allo spopolamento delle aree rurali, con l’abbandono delle campagne da parte delle nuove generazioni e la perdita di un patrimonio culturale e paesaggistico costruito in secoli di coltivazione tradizionale.

 

Il futuro dell’olivicoltura secondo Deoleo

Secondo il rapporto elaborato da Deoleo, una delle principali multinazionali dell’olio d’oliva, il futuro dell’olivicoltura spagnola si gioca su un delicato equilibrio tra produttività ed equilibrio territoriale. Se da un lato l’espansione degli oliveti superintensivi ha aumentato la produzione e ridotto i costi, dall’altro si rischia di compromettere definitivamente il modello tradizionale, non più competitivo in termini di prezzo.

 

Grafico: In arancione la superficie olivicola totale. In verde scuro quella tradizionale e in verde chiaro quella 'efficiente'

In arancione la superficie olivicola totale. In verde scuro quella tradizionale e in verde chiaro quella “efficiente”

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(Fonte foto: Deoleo)

 

Oggi più del 30% degli oliveti spagnoli è costituito da coltivazioni tradizionali non meccanizzabili (OTNM), spesso situate in aree collinari o montuose, e gestite da piccole aziende con meno di 3 ettari. Si tratta di realtà che, pur producendo oli di alta qualità e con grande valore organolettico, faticano a reggere l’urto della concorrenza globale. Secondo le stime di Deoleo, oltre 500mila ettari di oliveti tradizionali rischiano l’abbandono entro il 2035, con conseguenze gravi non solo per l’economia agricola, ma anche per il paesaggio, la biodiversità e la coesione sociale delle aree rurali.

 

Per invertire questa tendenza, la multinazionale propone un cambio di paradigma basato sulla valorizzazione dell’olio extravergine di qualità, la differenziazione dei prodotti e una maggior cooperazione lungo la filiera, dalla produzione alla distribuzione. Un processo che dovrebbe coinvolgere anche l’Italia.

 

Solo recuperando valore agli occhi del consumatore (attraverso la promozione delle proprietà salutistiche, della tracciabilità e delle caratteristiche sensoriali) sarà possibile, specifica Deoleo, garantire la sostenibilità economica anche delle produzioni più fragili. Inoltre, vi è la necessità di una maggiore armonizzazione normativa internazionale, che protegga le denominazioni e premi la qualità autentica rispetto alla mera efficienza produttiva.

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Oliveti in bilico: il rischio della riconversione fotovoltaica

Il legame tra i fondi di investimento e l’agricoltura è guidato da una logica di rendimento economico. Se oggi l’olio di oliva rappresenta un’opportunità redditizia, nulla garantisce che sarà sempre così. I fondi, infatti, non hanno vincoli emotivi o storici con la terra: qualora la coltivazione dell’olivo smettesse di essere profittevole, ad esempio per un calo dei prezzi o per una cronica scarsità di acqua, potrebbero riconvertire rapidamente i terreni verso destinazioni più redditizie, come la produzione di energia.

 

Proprio in Andalusia, l’organizzazione SOS Rural ha denunciato il progetto di sradicamento di oltre 100mila ulivi per far spazio a un mega impianto solare da quasi 255 megawatt. Il progetto, localizzato tra Lopera, Arjona e Marmolejo, prevede l’occupazione di 895 ettari, ma è solo il primo tassello: sono in cantiere altri diciotto impianti nella stessa area, con una potenza complessiva di 1 gigawatt e la potenziale distruzione di altri 320mila ulivi.

 

Secondo SOS Rural, la Spagna sta rischiando di passare dall’essere “l’oliveto d’Europa al fotovoltaico europeo”, trasformando un paesaggio agricolo e culturale in un ambiente industriale. Dietro questa tendenza si celerebbero, secondo gli attivisti di SOS Rural, strategie elusive da parte dei promotori, che frazionano i progetti in impianti da meno di 50 megawatt per evitare la supervisione diretta dello Stato.

 

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Il fenomeno solleva anche un problema di accettabilità sociale: uno studio citato da SOS Rural rivela che il 56% degli spagnoli è contrario all’uso di terreni agricoli per impianti solari, segno di una crescente preoccupazione per la perdita di suolo produttivo e per lo snaturamento del paesaggio rurale.

 

Quale futuro per l’olivicoltura?

Il caso spagnolo rappresenta un laboratorio per comprendere le potenzialità, ma anche i rischi, della trasformazione dell’olivicoltura. Se da un lato l’ingresso dei capitali può stimolare l’innovazione e l’efficienza, dall’altro rischia di cancellare la dimensione rurale e comunitaria che ha sempre caratterizzato l’olivicoltura mediterranea.

 

Per questo, secondo diversi osservatori, servono politiche pubbliche in grado di riequilibrare il settore, sostenendo le aziende familiari, incentivando la qualità e promuovendo modelli di produzione sostenibili dal punto di vista ambientale e sociale. Ma il punto fondamentale è trasmettere al consumatore il valore di un prodotto che non è un mero condimento, ma un fattore di benessere.



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